Quasi il 20% del Pil europeo, per l’esattezza il 19,1%, nell’annata 2016 è stato corrisposto per la spesa sociale. Di gran lunga, il sociale, è il settore più importante nelle voci di spesa delle amministrazioni pubbliche europee, secondo Eurostat. Infatti, ad una certa distanza, vi è il settore della salute con il 7,1%. La terza piazza spetta ai servizi pubblici generali con il 6%. Vi è poi l’istruzione (4,7%) e gli affari economici (4%). La sicurezza è al 1,7%, mentre la cultura è al 1%. In generale tutte queste voci corrispondono al 40% della spesa pubblica totale. Entrando nel dettaglio degli stati membri vi sono, evidentemente, delle grandi diversità di comportamento.
Nel rapporto tra pil e la spesa pubblica nel sociale si evince che la Finlandia è lo stato che investe di più, per la precisione il 25,6%, e con altri sette stati membri, tra cui vi è l’Italia, superano tranquillamente il 20% del pil. Tra chi investe di meno vi è l’Irlanda che è posizionata al 9,9% del pil.
Nel settore della salute la Francia e la Danimarca sono i due stati che ottengono le più alte performance, superando tutte e due ampiamente l’8% del pil.
Nel comparto dell’istruzione la più alta percentuale è riscontrata in Danimarca e Svezia, entrambi con il 6.9% del pil. Nel settore delle spese governative per affari economici, al gradino più alto vi è l’Ungheria con il 7,1% del pil. Nei servizi generali, invece, vi è la Grecia che investe il 9,2% del pil. Infine ecco i dati riferiti all’Italia; nel particolare il belpaese ha investito il 21,1% del Pil nella spesa sociale, il 7,9% del nei servizi pubblici e il 7% nella sanità. A seguire, con il 4%, vi sono gli affari economici, e poi ancora l’educazione al 3,9% ed, infine, l’ordine pubblico e la sicurezza al 1,9%. Da menzionare che la cultura non riesce a superare l’1% del pil, per l’esattezza lo 0,8%.
In allegato il documento completo Eurostat
La Banca d’Italia ha presentato l’indagine sui redditi delle famiglie italiane aggiornato all’annualità 2016. La rilevazione dell’istituto di via Nazionale evidenzia che il reddito medio è cresciuto del 3,5% rispetto alla precedente osservazione, datata 2014. Fino alla data del 2014, infatti, per circa dieci anni si è registrata una continua decrescita del reddito delle famiglie italiane. Questo aumento deriva principalmente dall’aumento dei redditi da lavoro dipendente. E’ aumentata anche la propensione al risparmio delle famiglie, una fenomenologia che abbraccia tutte le classi sociali. Tra le classi più basse aumenta, però, la propensione di coloro che ricorrono ai risparmi e ai prestiti personali.
Ma questo quadro di positività non è tutto rose e fiori; vi è, purtroppo, una forte presenza di cittadini a rischio povertà; un aumento continuo che è individuabile tendenzialmente al meridione e tra le famiglie di nuova costituzione. La ricchezza media è calata, ma la nota positiva riguarda la quota d’indebitamento delle famiglie che continua a diminuire sempre più.
A comporre il reddito delle famiglie italiane contribuiscono le abitazioni che sono per il 70% di proprietà. Inoltre circa un terzo di queste famiglie possiede altri immobili. Nel 2016 il valore per metro quadrato vale in media poco meno di 1.800 euro al metro quadrato, il 7 per cento in meno rispetto al valore del 2014 e il 23 per cento in meno rispetto a quello registrato nel 2006. In allegato il documento completo della Banca d’Italia
Ecco che Istat presenta i primi dati occupazionali relativi al 2017. In estrema sintesi si delinea un futuro dove il dato occupazionale è in terreno positivo (sia nel valore assoluto che in quello dei tassi). Il dato positivo riguarda tutte le fasce di età, anche, e soprattutto, per i giovani; quelli che fino ad ora, come raccontato da tutti gli analisti in questi mesi ed anni, hanno sofferto più di tutti l’enorme crisi economica che ha attanagliato l'intero occidente e l'Italia tutta.
In sintesi, c’è più lavoro e vi sono meno inattivi. Nell’ultimo trimestre 2017 l’economia italiana ha registrato un aumento del pil nella misura dello 0,6% che diventa +1,6% su base annua. Sono aumentati i lavoratori a tempo determinato, seppur in maniera minimale, in calo, invece, quelli a tempo indeterminato.
Questo fa sì che scende, seppur minimamente, il tasso di disoccupazione arrivando a segnare l’11% dopo i diversi cali evidenziatesi nelle precedenti rilevazioni. I segnali di positività sono frutto anche di un aumento del monte ore che nell’ultimo trimestre 2017 è aumentato del’1,2% rispetto al precedente, e addirittura del 5,1% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Anche il ricorso alla CIG è diminuita passando da 11,6 a 6.9 per mille ore lavorate. In allegato il documento completo Istat